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La visione di Cycles: l’intervista a Marcello Bonanno
In occasione dell’uscita di Cycles abbiamo conversato con Marcello Bonanno.
- Il titolo del nuovo disco, Cycles, rimanda alla ciclicità, al respiro, a un’idea esatta di vitalità musicale che emerge fortissima dall’opera. Non a caso la “visione” che è stata per te fonte di ispirazione si conclude proprio con una “creatura viva, immensa e silenziosa”…
Le ciclicità cui mi riferisco sono molto diverse: da quelle dei sistemi orbitanti o delle curvature spazio-temporali ai cicli della vita. Da un qualcosa che gira vorticosamente su se stesso, tanto da implodere in una nota sola, al rovello mentale, all’ossessione che torna sempre, fino al trauma psichico che assume massa e forza gravitazionale, imbrigliandoci in un moto circolare intorno ad esso. O ancora l’assenza di centro gravitazionale, in cui un’idea nella sua solitudine comincia a volteggiare su se stessa, scoprendo luci e bellezze inaspettate. Poi, ad un certo punto, come in “2001: Odissea nello spazio”, arriva una linea retta dall’alto: la dimensione singola, l’astrazione. L’uomo si allontana dal suo eden, le linee diventano rette. L’incedere sfruttando le fionde gravitazionali diventa la ri-fondazione razionale di un luogo, piano, e compaiono le ciclicità nelle meccanizzazioni, nello stridore di macchinari, nell’incedere del tempo che scorre troppo in fretta, nel martellamento del dover fare.
Penso che la nostra vita sia una costante contrattazione tra l’abbandono alla vita stessa e la razionalizzazione di qualcosa propria di qualcun altro.
Il suono centrale della “visione”, retto, monodimensionale, è l’astrazione di un’idea unica, che l’uomo piazza in un sistema, in cui però c’è l’energia del Caos, c’è una rete immensa di altri enti con la loro massa, e quindi gravità ed energia. Il concetto di nota è un’astrazione. Se produciamo una nota con un corpo elastico vibrante (come la voce o uno strumento musicale, o anche un oggetto qualsiasi) questo non emette una sola frequenza pura (che, per altro, esprimiamo in cicli al secondo) ma un suono con uno spettro armonico (cioè un insieme di differenti frequenze, più o meno cangiante nel tempo) che genera numerose interazioni con altri suoni e finanche con se stesso. Anche quando si sovrappongono due suoni puri, senza armonici, si genera quantomeno un terzo suono. Tracciare questa linea retta è un’operazione altamente artificiale ed endoergonica, che richiede una grande quantità di energia che viene rilasciata ad ogni interazione musicale.
Nel mio testo introduttivo – che scrissi di getto e di cui ancora oggi non capisco il più profondo perché – inizialmente declino il tutto in numeri piccoli: un solo suono, l’interazione con qualcun altro. Ma quando l’uomo genera interi sistemi compositivi ecco che le linee che marca risultano essere tante e variamente intrecciate, ed i vettori che si creano nelle interazioni interne ed esterne arrivano ad avere la complessità di un organismo vivente.
- La visione che ha dato vita a Cycles stimola numerose riflessioni: l’entità del suono, la sua origine e la sua destinazione, la sua “forma”. Una cosa sulla quale però si indaga troppo poco è la “trasmissibilità”, o meglio la “traduzione” in una musica assimilabile e fruibile come la tua. Cosa puoi dirci a riguardo?
Innanzi tutto credo che l’attenzione alla fruibilità sia uno dei grandi pregi del patrimonio culturale italiano, di cui andare fieri senza ottundimenti esterofili. Mi vengono in mente, di primo acchito, i nomi di Dante Alighieri o di Giacomo Puccini.
Spesso purtroppo si sente parlare di “linguaggio musicale” riferendosi però alla sola “scorza sonora”, assimilando il concetto al solo “stile”. Una lingua è grammatica, è logica ed è soprattutto mezzo per la comunicazione di un pensiero. Non fermiamoci, non incartiamoci sul voler sentenziare su segno e/o simbolo, altrimenti non arriveremo mai a riconoscere che la musica comunichi qualcosa. La musica è un linguaggio per concetti, non per oggetti. È affermazione, negazione, corsa, stasi, affanno, solitudine, imposizione, violenza, garbo, dubbio, apertura, chiusura, ostinazione, tensione, ossessione, respiro, domanda, afflato, sinergia, convivenza, filiazione, proliferazione e milioni di cose ancora. Quando compongo ho un pensiero in testa, che, semplicemente, si palesa in termini musicali. Non ho idea di cosa voglio dire mentre compongo, solo qualche “insight” che mi aiuta a procedere con coerenza. A distanza di tempo, a brano finito, mi rendo conto che quel pezzo significa qualcosa. Potrei far finta di credere o provare qualcos’altro, perché più opportuno, perché necessario. Tutti i compositori lo sanno fare, è una questione di tecnica, indispensabile per il mestiere. Ma preferisco limitarmi in questo, perché la differenza si sente. E poi non lo trovo corretto nei confronti di chi ascolta. Preferisco rilasciare meno musica e continuare a riempire i miei pantagruelici faldoni di “bozze”.
- Hai definito la tua musica “elettronica fatta a mano”, un’affermazione che potrebbe stupire se pensiamo al tuo piano solo, ma che in realtà ha una motivazione forte e lucida. Puoi spiegarci meglio questo concetto? Quanto di questa “hand made electronic” è presente in Cycles?
In Cycle I e III faccio riferimento anche a processi compositivi propri dell’elettronica “commerciale”. In altri – come Invocazione, Die Vorstufe des Chaos o Lorentz boost – ci sono numerosi rimandi all’analisi spettrale del suono, e Györgyplatz è interamente composto con linee diagonali che si intrecciano variamente, in omaggio ad un certo stile di composizione per pianoforte meccanico.
Per lungo tempo la macchina consuetamente adoperata per lo studio e a sussidio della composizione è stata lo strumento a tastiera (clavicembalo prima, pianoforte dopo). Oggi la macchina per l’analisi, la riproduzione e la progettazione del mondo – ivi compreso quello musicale – è il computer. Ciò sposta di molto l’equilibrio tra la composizione tradizionale “con le note” e quella con gli eventi sonori, e favorisce alcuni processi piuttosto che altri. Se la “vecchia macchina” favoriva la focalizzazione dell’attenzione sull’armonizzazione, e quindi sui sistemi armonici possibili con le dodici note, la “nuova macchina” favorisce la ripetizione, l’analisi e l’alterazione di elementi concreti, fa esplodere i processi di sintesi in un universo in cui la fissazione di dodici frequenze di riferimento all’interno di un intervallo da n a 2n – cioè le note – risulta essere ben poca cosa, o, nell’accezione più commerciale, spalleggia la sovrapposizione di diversi elementi motivici o pattern che si ripetono in “loop”. Ciò non determina più lo sviluppo armonico classicamente inteso come prioritario, né questo risulta sempre agevolmente compatibile o praticabile. La gigantesca produzione planetaria della musica così composta o comunque elettronicamente “assistita” porta con sé un’estetica completamente diversa. A mio modesto avviso, siamo davanti ad un cambiamento epocale.
Ho voluto riprendere i processi di scrittura sui quali sono costruiti i software più utilizzati per far musica col computer (i “multitraccia”, come Cubase, Protools, Logic o altri) dandomi una regola precisa: che fosse tutto eseguibile in maniera canonica su un normale pianoforte, senza alcun ricorso a sovraincisioni o effetti elettronici, e tutto scritto in notazione classica su uno spartito. Ho effettivamente composto i brani in questione al computer, sovrapponendo diverse tracce, utilizzando ripetizioni ed eco, giocando molto col phasing, e stando però sempre attento a che tutte le sovrapposizioni che si creavano fossero sempre eseguibili dalle due mani del pianista. A composizione completata, ho trascritto tutto su pentagramma, compresi i risultati degli effetti di eco. Viceversa, gli altri brani amo scriverli per intero a matita, come di norma, e il computer lo utilizzo solamente per fare la bella copia.
- Un album di piano solo può essere anche il punto di confluenza di una serie di rielaborazioni: Cycles porta ad unità molti tuoi studi e ascolti approfonditi, da Bill Evans al post-minimalismo americano, dalla “machinerie” di Ligeti alla calligrafia sonora del “minimalismo massimalista” di Hans Otte. Qual è il passaggio per “fare sistema”, per sintetizzare?
Come ho detto prima, se si restituisce senso e logica agli eventi musicali allora è facile operare in termini per i quali, se vuoi dare voce ad una certa idea, questa può essere resa efficacemente con una serie di processi musicali che possono anche presentarsi in modi assai contrastanti. L’esperienza di approfondimento di diversi repertori fa saltar su, alla superficie del mio mare mentale, cose tanto diverse. Tecnicamente, bisogna saper superare la scorza, cioè lo stile, bisogna saper aprire l’oggetto che è emerso, smontarlo e farlo proliferare nel modo che ti serve, consapevoli del fatto che l’aspetto finale potrà essere sensibilmente diverso dalla sua scorza primigenia, pur mantenendone un certo “sapore” che ne testimonia le origini. Parti da un oggetto che deriva da un certo sistema compositivo per sottoporto ad un processo variativo, che magari non è quello consuetamente adoperato nel repertorio in cui quel materiale è solito presentarsi. Io credo che tutte le evoluzioni dei linguaggi avvengano così.
- In copertina la Figura femminile di Costantino Nivola. Vengono in mente le “sound sculptures” alle quali alludeva Frank Zappa, o più in generale un’idea di manualità che plasma e trasforma.
L’accostamento con Zappa è sempre e comunque lusinghiero. Ad averla, una visione così estesa come l’ha avuta lui! È vero che raramente mi nego escursioni stilistiche e ribaltamenti di prospettiva, ma certamente non sono all’altezza del rimando.
Sono partito dalla ricerca di un richiamo ancestrale alla cultura megalitica, e l’approdo virtuale in Sardegna è stato del tutto naturale. Combinazione vuole che in quell’isola abbia operato fino a poco tempo fa anche Pinuccio Sciola, noto per le sue “Pietre Sonore”, e la citazione non può non venirmi in mente. La differenza tra l’idea zappiana delle “sound sculptures”, che è massimalista, e quella dell’utilizzo dell’immagine dell’opera di Nivola, è che qui siamo in un contesto molto più essenziale. L’opera di Nivola ha un asse centrale ben marcato, che per me è un suono solo, e, nello specifico, è il Do centrale: assente nella prima traccia di Cycles, “primo stadio del caos”, nota centrale e ultima di Invocazione, e unica nota in Cycle IV. Quell’asse unico, nell’abbraccio con le ciclicità che gli stanno intorno, in diverse proiezioni diventa Madre feconda. È tutto totalmente concreto, come la pietra, e, come la pietra, perenne, quantomeno nella nostra percezione emotiva. Presente nel tempo ma oltre esso. Mi piaceva, in un’opera come questo album, in cui ci sono anche diversi rimandi alla storia personale e generativa che diventano musica, richiamare invece la figura della madre – generatrice perfetta, universo fetale – con un’immagine silenziosa.
- Come accade sempre nella realizzazione degli album Almendra, risultano decisivi i luoghi, i transiti e la loro traduzione in narrazioni musicali in grado di parlare oggi ad ascoltatori coi più diversi background e interessi musicali. Tu sei siciliano, vivi a Milano, hai registrato Cycles nello studio di Almendra a Palermo: quasi una sorta di “sliding doors” tra il tuo passato, il tuo presente e le visioni del futuro. La tua musica risente di questo movimento tra nuove e vecchie radici? Oppure nasce e si sviluppa su direttrici “non geografiche”?
Le città hanno un loro battito e un loro respiro, e quando capisci che non puoi non sintonizzarti con questi, in realtà lo hai già fatto da un pezzo. Penso che i luoghi abbiano un carattere col quale si impone un dialogo. Per me una città è in primis questo: identità. È un tarlo che ti porti dentro, che ti impone una costante disamina di quanto tu ne sia diverso. Perché, di default, tu sei parte di quella identità e quindi aderente ad essa sino a prova contraria.
Nei miei spartiti o partiture indico sempre luogo e data della composizione, quasi i fogli pentagrammati fossero pagine di un diario, e, quindi: sì, la mia musica si muove col mio essere ed evolvermi e non potrebbe non riflettere gli effetti delle differenti condizioni ambientali.
Riguardo ad affibbiare a Palermo il simulacro del mio passato e a Milano quello del presente, mi preme dire due cose. La prima è che, quando cominciai a frequentare Milano da pendolare, per studiare con Bruno Canino e alla Accademia della Scala, in Italia c’era ancora la lira. La seconda è che penso che per tutti noi che viviamo in un posto diverso da quello in cui siamo nati e cresciuti, la nostra “casa” è entrambi i luoghi. Nella mia percezione l’intero tessuto viario del primo continua in quello dell’altro senza soluzione di continuità, come se fossero un unico posto, come se da piazzale Loreto potessi voltare un angolo e ritrovarmi al Teatro Massimo, per quanto io abbia felicemente ben chiare le profonde differenze tra le due città. “Sliding doors” come mezzo ipotetico che annulla le distanze: sì. Come porta tra multiversi: no.
- Cycles è il nuovo capitolo della proposta di una nuova musica pianistica molto cara ad Almendra, caratterizzata da immediatezza d’ascolto ma lontana sia dalle estetiche commerciali del solo piano che da una visione ingessata e museale dello strumento. Prima di te due giovani come Giovanni Di Giandomenico e Valentina Casesa e un collega già noto – ma per la prima volta al piano su disco – come Marco Betta. Cosa pensi di questo pianismo Almendra e come pensi vi si inquadri, o se ne distanzi, il tuo Cycles?
Di Marco Betta mi piace la visionarietà, la capacità di andare oltre le cose, o, meglio, di farle vivere sempre in un piano simbolico. Di Valentina Casesa ammiro la capacità di gestire le stratificazioni storiche che cita con ottimo savoir-faire. Di Giovanni Di Giandomenico mi incanta la profonda attitudine alla ricerca, tanto in termini di apertura mentale quanto di capacità di applicazione alle diverse metodologie, con gli ottimi esiti di cui è capace. Se ripercorro quanto appena detto, direi che Cycles può essere considerato coerente.
- Un compositore come te, con il tuo percorso, le tue idee e la tua storia, cosa trova di stimolante nell’ambiente Almendra e cosa pensa di poter offrire al percorso dell’etichetta?
Diciamo subito che Almendra è una realtà che esiste da relativamente poco tempo e che stiamo quindi parlando di una scommessa. Io in questa scommessa ci credo fortemente, perché Almendra ha un bagaglio molto solido su diversi versanti, quali la visione, le competenze riguardo al repertorio e riguardo alle tecniche audio. I primi risultati che ha ottenuto sono, coerentemente, molto incoraggianti.
Mi stimola il fatto che si opera in un contesto in cui ci si è potuti prendere un giorno e mezzo di tempo solamente per studiare la microfonazione del pianoforte più appropriata ai contenuti musicali, perché era necessario farlo, piuttosto che rimbalzare alle canoniche soluzioni “da scuola” che non ci avevano convinto. Mi stimola il produrre con un’etichetta che non si limita a pubblicare master che arrivano non si sa da dove, ma che vuole essere una “factory” che ha, nel suo proprio studio di registrazione, un punto di partenza. Mi stimola la visione di editoria al passo coi tempi, aperta a mezzi e soluzioni in costante aggiornamento. Mi stimola collaborare con chi non contempla come obiettivo finale di poter vendere tutto ad una multinazionale. Mi stimola il fatto che, proprio con Cycles, sta partendo parallelamente anche il progetto di editoria a stampa, e questo perché Almendra ha ritenuto importante “far vedere” al pubblico le partiture di questo lavoro, perché ritiene che sia importante presentarne pubblicamente anche l’aspetto progettuale. Ciò che posso dare io è molto semplice: la mia musica… E i miei cattivissimi consigli!